Tecno-follie: considerazioni su un utilizzo consapevole della tecnologia
Non vi sono dubbi sul fatto che le attività di supply chain, a qualsiasi livello e di qualsiasi forma, siano investite da un incremento tecnologico e che sembra sempre più inevitabile ed opportuno puntare su questo aspetto per favorire l’aumento di competitività delle aziende.
Non in contrasto, ma anzi fermamente convinto che questa sia la direzione da seguire (e, vista l’arretratezza del panorama nazionale in questo senso rispetto alle avanguardie mondiali, da “inseguire”) ritengo possa essere interessante passare in rassegna quelli che sono i fraintendimenti più comuni che rischiano di vanificare sforzi ed investimenti fatti allo scopo di progredire, ma che invece rischiano fatalmente di produrre risultati inversi o comunque deludenti.
La resistenza degli utilizzatori: un fenomeno naturale
Intanto perché queste tecnologie entreranno ad influenzare prassi di lavoro consolidate nel tempo, sconvolgendo abitudini radicatesi allo scopo di una migliore operatività, e che inizialmente quindi verranno percepite dagli utilizzatori come difficoltà inopportune (nel migliore dei casi).
È una reazione spontanea e naturale, perché l’operatore nel momento in cui si vede privato di una facoltà acquisita con difficoltà, sente di aver sprecato la fatica fatta per imparare a gestirla. Nel contempo sente, a ragione, di dover sviluppare una nuova competenza per fare bene il suo lavoro, sebbene questa gli venga proposta fondamentalmente allo scopo di facilitarne il compito.
Questo non è un aspetto trascurabile, perché, come per l’utilizzo di qualsiasi tecnologia evoluta, serve tempo e disponibilità per consentire alle novità di entrare funzionalmente nelle prassi quotidiane.
Pensiamo a quanto successo nel mondo dei telefonini: per nessuno di noi, che iniziamo ad avere qualche capello bianco, è stato facilissimo assimilare la sparizione dei tasti fisici e la gestione delle nuove modalità di digitazione, sebbene ci fossimo da subito resi conto della portata della rivoluzione che questo comportava. Alcuni si sono fermati alla riconquista della facoltà di telefonare e di digitare messaggi, ma a chi si è dato il tempo di approfondire e di conoscere al meglio le nuove funzioni derivanti si è aperto da subito l’orizzonte di un nuovo media in condizione di assimilare in sè tutti gli altri e di renderli trasportabili in una tasca.
Allo stesso modo, il dover codificare (e quindi dichiarare digitalmente esistenti) i colli di un magazzino è sembrato negli anni 90 un’operazione idiota e non necessaria agli operatori dell’epoca, che forse non erano stati messi nelle condizioni di comprendere la deriva concettuale che ne sarebbe conseguita in termini di data science e di crescenti necessità sia amministrative sia distributive.
Ho visto con i miei occhi autisti lamentarsi di dover passare a bollettazione digitale, di dover imparare le procedure di ricarica dei veicoli elettici, e di dover disporre di un navigatore satellitare;
Operatori di magazzino lamentarsi di dover imparare ad utilizzare transpallet con uomo a bordo (invece di doverli trascinare manualmente!!!), di dover imparare ad utilizzare scanner digitali e di dover imparare l’utilizzo di sistemi di pallettizzazione automatizzati (giudicati lenti e bypassati manualmente in alcuni casi).
Quelli proposti sono solo esempi, che però servono a comprendere quanto sia istintivamente naturale una sorta di resistenza all’implementazione tecnologica delle attività professionali, sia perché l’abilità di un operare motivato e competente non è oggettivamente surrogabile digitalmente con facilità, ma anche per lo sforzo che questo comporta in termini intellettuali, che talvolta non viene correttamente (e, consentitemi, colpevolmente) supportato dalle aziende stesse, le quali investono ingenti capitali nell’introduzione delle tecnologie, ma poi non concedono agli utilizzatori il tempo e le risorse necessari per apprendere ad utilizzale al meglio.
Le tecnologie richiedono tempi e metodi di implementazione:
Sembra banale sottolinearlo, ma non lo è. L’inserimento di nuove tecnologie quindi, in qualsiasi tipo di attività richiede un’attenta pianificazione.
Da un lato è necessario rendere il meno traumatica possibile l’introduzione delle novità sulle vecchie prassi da evolvere, senza fermare l’attività e organizzando l’inserimento di ogni elemento, formando il personale coinvolto a tutti i livelli sulle nuove dinamiche di utilizzo e sulle possibilità che la tecnologia introdotta comporta.
Dall’altro è necessario avere deciso a priori fino che punto la completa implementazione della tecnologia proposta sia compatibile e necessaria allo sviluppo dell’attività (ovvero fino a che punto crea valore immediatamente e quanto invece si intenda attendere ulteriori implementazioni future).
Inserire un sistema WMS evoluto ad esempio mette un’azienda nella disponibilità di un’enorme quantità di dati riguardo ad ogni fase della filiera.
Questo però se ogni operatore coinvolto segnala correttamente al sistema le operazioni svolte e i vari passaggi di mano: non è raro che nelle prassi di utilizzo si proceda per innumerevoli ragioni (alcune valide, altre meno) a forzature del sistema che compromettono sia la purezza che la rappresentatività dei dati riportati.
Nella mia esperienza sono innumerevoli gli esempi che potrei portare di operazioni di questo tipo, fatte per le ragioni più variopinte: dalla volontà di “dopare” i numeri e le produttività di reparto, a semplici sviste o dimenticanze, fino all’incapacità di gestire e di segnalare il dato per mancanza di competenza.
Non è così scontato infine, specie nelle realtà più piccole, che poi ci siano persone addette all’analisi ed allo studio di questi dati, e che l’utilizzo che ne viene fatto sia competente e completo.
Fatto sta che anche il sistema più infallibile ha necessità di essere utilizzato correttamente e continuamente monitorato, per avere certezza che i dati da esso veicolati siano aderenti alla realtà del gemba, e che sia continuamente adeguato alle mutanti esigenze produttive.
Checchè se ne dica non esiste un sistema perfetto, esente da errori: se io carico a sistema le banane come zucchine, il sistema penserà che quelle banane sono zucchine e non si accorgerà delle differenze. Se io carico un collo al posto di un lotto lui penserà che io ho movimentato un solo collo.
La qualità del lavoro umano non verrà mai meno come necessità, e lo scopo della tecnologia è quello di renderla meno faticosa da esprimere, non quello di surrogarla completamente.
La conseguenza di un’implementazione non strutturata è la scarsa affidabilità dei dati raccolti ed analizzati, con conseguenze su tutta l’analisi della value stream.
Competenze trasversali e nuove necessità:
Diviene quindi fondamentale che, assieme all’avvento dei supporti hardware e software che consentano alle attività di progredire tecnologicamente, si investa contestualmente sull’acquisizione e sulla formazione delle nuove competenze necessarie sia al corretto e completo utilizzo delle stesse, sia alla risoluzione dei problemi che possono derivarne.
È buona prassi formare le figure che utilizzeranno le nuove attrezzature o i nuovi software (o le nuove feature avanzate degli stessi), ed affiancarle a figure con abilità specifiche: sistemisti, sviluppatori, o comunque persone formate in ambito digitale che possano assicurare sia un corretto problem solving in caso di guasti o malfunzionamenti, sia una garanzia per il corretto utilizzo delle, a volte costosissime, novità tecnologiche introdotte in azienda.
Qual é il progresso che si intende raggiungere?
Ultima considerazione che ritengo fondamentale venga svolta nel momento in cui si introducono nuove tecnologie è di natura prospettica: cosa mi aspetto che questa tecnologia porti in azienda? Quale progresso sto inseguendo? Un mito parzialmente falso è che l’implementazione tecnologia comporti un drastico incremento delle prestazioni.
La mia personale esperienza è piena di esempi contrari, nei quali le novità hanno comportato una leggera erosione in termini puramente prestazionali: “le nuove macchine (più agili e capaci di manovrare in spazi più stretti) hanno minore capacità di carico e sono più lente”; “inserire tutti i colli a sistema comporta un’enorme perdita di tempo”; “il sistema di filmatura è lento e impiega quasi tre minuti a filmare un bancale”; “la ricarica dei veicoli elettrici è troppo lenta, erano meglio quelli a benzina”…
Gli esempi possono essere innumerevoli, e sono certo ne troverete diversi pensando alla vostra personale esperienza. Ma per restare nei casi citati: “le nuove macchine hanno consentito di ridurre l’ampiezza delle scansie e di aumentare la capienza del magazzino”; “ora l’azienda dispone di un monitoraggio totale del flusso e fattura con un click”; “gli infortuni sono diminuiti del 35%”; “l’azienda risparmia in carburante ed il pianeta ringrazia”.
Una migliore operatività non è solamente sinonimo di una maggiore produttività. Le tecnologie non servono solo ad andare più veloci, questo equivarrebbe a banalizzarle. Servono forse principalmente a lavorare più sicuri, con meno rischi, con maggiore costanza e minore fatica, con dati certi e monitoraggio tout court di filiera e flusso del valore, di costi e di dinamiche operative.