Quali sono le caratteristiche demografiche dei lavoratori della logistica?
Un viaggio tra pregiudizi e nuove possibilità
Un indicatore importante dello stato di salute di un settore è la varietà socioculturale degli operatori coinvolti professionalmente in esso. La presenza femminile, piuttosto che l’apertura ai giovani, alle categorie protette e agli stranieri, così come la possibilità di accesso di tutte queste categorie di lavoratori ai i ruoli apicali sono segnali in grado di rivelare quanto il sistema sia solido e pronto ad evolvere armoniosamente con la società circostante.
Non è facile procurarsi dati inconfutabili riguardo alle caratteristiche demografiche degli operatori del comparto, e quelli disponibili appaiono perlomeno discutibili oppure già obsoleti, per quanto riguarda l’effettivo riscontro percepito a livello esperienziale.
Tutte le fonti apparentemente concordano sul fatto che il settore sia in evoluzione e che sia un contesto fertile, in grado (e forse anzi nel bisogno) di offrire possibilità lavorative crescenti nel corso dei prossimi anni. La domanda di lavoratori nell’ambito è alta, e all’orizzonte si profila la necessità di nuove figure professionali che si immaginano sempre più specializzate, al fine di gestire quell’implementazione tecnologica che appare oggi come una necessità ineludibile del comparto.
Va altresì considerato che tutte queste categorie di lavoratori godono di un sistema normativo “a protezione” della fragilità della categoria, che ne agevola l’assunzione o ne sgrava i costi per le aziende, sebbene nel il nostro sistema valoriale “ufficiale”, non esista alcuno svantaggio effettivo nell’essere un giovane, una donna uno straniero o un portatore di handicap… o perlomeno non dovrebbe esistere.
Nonostante questo in ogni nazione esistono, tra gli impiegati dei vari settori, caratteristiche demografiche prevalenti che, nella maggior parte dei casi, sono contemporaneamente causa ed effetto della percezione sociale delle attività stesse. Si tratta fondamentalmente di una forma di pregiudizio, ai limiti del politicamente corretto, che attribuisce ad una categoria specifica di cittadini l’essere adatti o meno ad una certa professione.
I clichè riguardanti il mondo della logistica e dei trasporti vorrebbero che il lavoro per tipologia e collocazione sociale sia incline agli stranieri (con una certa tendenza in negativo al fenomeno dell’etnicizzazione), ma poco alle donne.
Penso possa essere interessante e, perché no, divertente analizzare più nel dettaglio quale sia il pregiudizio, quali i dati statistici reperibili e quali le percezioni avute sul campo proprio riguardo a donne e stranieri, che si pongono ai lati opposti delle minoranze più e meno rappresentate nel settore, almeno per quanto concerne l’opinione popolare.
Donne e logistica: il futuro è rosa
Comunemente l’ambito della logistica e quello dei trasporti vengono considerati mondi poco permeabili alla presenza femminile. Il lavoro di movimentazione e di magazzinaggio viene considerato troppo gravoso fisicamente, ed il pregiudizio sulle donne alla guida valica ampiamente l’orizzonte settoriale per sfociare nel più autentico luogo comune pregiudizievole.
Nonostante questo i dati ufficiali parlano di un 22% di impiegati donna nel settore, dato (differentemente da molti altri ambiti) in linea con le medie internazionali, certamente espressione di una crescita lenta ma continua iniziata nell’ultimo decennio e che gli esperti considerano molto lontana dal doversi attenuare in futuro.
Questo significa fondamentalmente due cose: che il pregiudizio sulle donne nella logistica sia un dato reale, e che tale pregiudizio sia universalmente diffuso e non esclusiva della nostra cultura machista.
Sebbene infatti sia comprensibile che la rappresentatività femminile nel settore sia inferiore al 50% data l’effettiva esigenza prestazionale di alcune mansioni e la loro scarsa confacienza con le possibilità fisiche femminili, non risulta comprensibile come comunque possa essere tanto al di sotto di tale soglia, né il perché tale dato sia, in alcuni ambiti anche ufficiali, celebrato come un successo ed una dimostrazione di emancipazione raggiunta.
Tanto più che all’interno di tali statistiche esistono differenze macroscopiche tra i vari pianeti della galassia del settore: i numeri infatti si riducono notevolmente man mano che si considerano i mansionamenti più operativi, riducendosi fino al 2,1% del sottosettore dell’autotrasporto.
Il lato positivo è che invece, per quanto riguarda le posizioni con mansionamento più alto, la presenza femminile aumenta drasticamente dimostrando se non altro la garanzia di opportunità meno dissimili per quanto concerne le possibilità di accesso del gentil sesso verso le posizioni di maggior prestigio.
Come in molti altri ambiti le ragioni di tale difficoltà esistono e sono di varia natura: se da un lato si palesano effettivi ostacoli di natura infrastrutturale (banalmente, pochissime strutture sono dotate di servizi igienici e spogliatoi non promiscui ad esempio) dall’altro l’elevata necessità operativa sembra mal coniugarsi con le ambizioni riguardo a maternità e work-life balance (che si connotano per la verità sempre meno come esigenze esclusive dell’universo femminile).
Altrettanto innegabili, e quantomai variegate, sono le resistenze di tipo culturale che le donne hanno dovuto (e devono) affrontare in questo contesto, con caratteristiche attribuite che variano dal già citato mito dell’incapacità alla guida, alla scarsa resistenza fisica fino alla scarsa propensione al lavoro di squadra. Anche la massiccia presenza di lavoratori stranieri provenienti da ambiti culturalmente arretrati e fortemente patriarcali ha contribuito in passato a creare una resistenza alla presenza femminile negli ambiti lavorativi più operativi, ed anche su questo aspetto credo sia in compimento una rivoluzione culturale necessaria ma ben lungi dall’essere conclusa.
Rosee sono le prospettive future, dato che la maggiore robotizzazione ed informatizzazione del comparto renderà a tutti i livelli sempre più necessarie figure tecnicamente preparate e meno fondamentali le specifiche in termini di pura performance fisica.
Working Melting Pot: i lavoratori stanieri
Continuando la carrellata dei luoghi comuni sugli operatori del settore troviamo l’assunto che le professioni dell’ambito di logistica e autotrasporto siano tra quelle abbandonate in massa dagli “Italiani” e che siano territorio quasi esclusivo dei lavoratori stranieri immigrati.
Anche in questo caso qualcosa di vero c’è, e a certificarlo troviamo i dati prodotti Bollettino Nazionale 2022 di UnionCamere-Excelsior. Dall’analisi effettuata emerge che il settore risulti tra i più attrattivi per il personale immigrato, che nel 2022 ha rappresentato il 29% delle nuove assunzioni nell’ambito (contro il 18% della media nazionale).
I dati della ricerca evidenziano anche la difficoltà di reperimento del personale ricercato, cosa che, rapportata agli alti tassi di disoccupazione ed inoccupazione attuali, parrebbe confermare un certo snobismo degli Italiani rispetto alle possibilità professionali esistenti nel comparto.
Probabilmente a questi numeri contribuiscono gli scarsi requisiti di accesso alle mansioni operative del settore, in grado di agevolare il superamento di problemi di comunicazione, di lingua, di scolarizzazione o di integrazione a vari livelli.
Anche la maggiore predisposizione al lavoro manuale o “di fatica” di alcune culture, o meglio, l’assenza dello stigma presente invece nella nostra verso le professioni considerate più umili, è forse un luogo comune. Certo è che nell’ambito i lavoratori stranieri vengono considerati più inclini al sacrificio e più disponibili ad adeguarsi alle necessità operative, si tratti di prestare straordinari, di lavorare su turni anche notturni, di disponibilità al lavoro festivo, o di dimostrarsi elastici rispetto al proprio mansionamento.
Visto che a pensar male si indovina, certamente esiste il sospetto che la grande capacità di accoglienza mostrata dal settore logistica e trasporti verso i lavoratori immigrati dipenda in parte dalla volontà di sfruttamento dello stato di necessità assoluta tipico dei casi più disperati, e certamente le cronache di settore sono ricche di storie variopinte su come, negli anni, tante aziende abbiano abusato illecitamente della condizione di bisogno dei dipendenti stranieri.
Nonostante questo piuttosto alta è la possibilità per i lavoratori stranieri di accedere a posizioni di medio livello, mentre decisamente più difficoltosa parrebbe ancora essere la possibilità per i lavoratori extra UE di accedere a livelli di Top Management.
Dall’altro lato un fenomeno non trascurabile è quello dell’etnicizzazione, ovvero la tendenza alla creazione, presso i luoghi di lavoro più affollati, di autentici clan rappresentati da connazionali di varie etnie, che si “affratellano” in maniere più o meno trasparenti (e, ahimè, legali) per ovvie questioni di affinità culturale. Nei casi più deleteri queste affratellamenti sfociano in fenomeni di ghettizzazione spesso contrapposta tra gruppi rivali, o, ancora peggio, in agglomerati di potere occulto all’interno delle postazioni lavorative che hanno la pretesa di veicolare assunzioni e indulgenze verso i propri relati.
Certamente l’attenzione a garantire un ambiente multiculturale, armonioso e aperto all’accoglimento delle differenze e di ogni diversità è un importante indicatore dell’ambizione e della reale grandezza di un’organizzazione aziendale, e la creazione dello stesso dipende da predisposizioni necessarie sia dall’alto (dalla dirigenza) sia dal basso (ovvero da parte delle stesse squadre di lavoratori che devono dimostrarsi inclini ad accogliere in prima persona le difficoltà dovute al multiculturalismo e che in vece a volte sono le prime a dimostrarsi incapaci di accogliere le differenze altrui).
L’ormai assidua presenza, accanto ai lavoratori recentemente immigrati, di lavoratori più anziani o addirittura di immigrati di seconda (o ormai anche terza) generazione sta negli ultimi anni contribuendo a lenire le difficoltà di integrazione derivanti dalla massiccia presenza di tante etnie diverse, e a far prevalere la comprensione di un’attitudine al lavoro più “occidentale”, in grado di abbattere il rischio di fenomeni di caporalato e di sfruttamento, ma anche di evitare derive estreme dell’associazionismo tra connazionali.
In futuro, vista la crescente esigenza numerica di impiegati nell’ambito, la scarsa reperibilità degli stessi e la già citata esiguità dei requisiti necessari per l’accesso alla professione, ritengo sia lecito attendersi che l’impiego massiccio di lavoratori immigrati nel comparto sia un trend destinato a confermarsi.
Ritengo altresì che, al netto di tutte le complicazioni che questo fenomeno porta con sé, proprio per questo motivo il comparto della logistica sia stato in passato e sia destinato a rimanere in futuro un volano importante utile a favorire la reale integrazione dei nuovi italiani nel tessuto sociale, e fondamentale per la progressiva emersione dei più biechi fenomeni di sfruttamento.